Le buone e tenaci ragioni

per l’abolizione

dell’ergastolo

                                                             
di Stefano Anastasia, Franco Corleone
 
 
11
1. «E, per quanto riguarda questa richiesta della pena, di
come debba essere la pena, un giudizio negativo, in linea
di principio, deve essere dato non soltanto per la pena ca-
pitale, che istantaneamente, puntualmente, elimina dal
consorzio sociale la figura del reo, ma anche nei confronti
della pena perpetua: l’ergastolo, che, privo com’è di qual-
siasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi solleci-
tazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, ap-
pare crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pe-
na di morte». Così parlava Aldo Moro ai suoi studenti,
nella Facoltà di Scienze politiche, a Roma, solo due anni
prima di essere sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse.
Nell’Italia di oggi, invece, la pena dell’ergastolo non sem-
bra fare più scandalo, stretti come siamo tra ossessione per
la sicurezza e risposte giustizialiste. E anzi sembra troppo
poco, al punto da chiedere che il massimo della pena (Mo-
sconi) non abbia più solo dimensioni quantitative (tempo-
rali) diverse, ma anche qualitative, di particolare afflittivi-
tà, come lascia intendere la  diffusa invocazione (e la fre-
quente pratica) del 41-bis non più solo come misura estre-
ma ed eccezionale di isolamento dal mondo esterno di
particolari detenuti affiliati a organizzazioni criminali, ma
come loro ordinaria forma di punizione.
Può apparire stravagante allora che, in una stagione se-
gnata dal predominio dell’ossessione securitaria, il primo
dei volumi pubblicati dalla Casa editrice Ediesse in colla-
borazione con la  Società della ragione sia dedicato al tema
dell’ergastolo e alle buone ragioni per la sua abolizione.
Non intende essere un segno di snobismo o di un facile
andare controcorrente, ma indica un impegno coerente e
intransigente su battaglie difficili, ma che sole possono se-
gnare la differenza. Vogliamo partecipare al compito ine-
ludibile di ricostruire una cultura smarrita.
È una responsabilità grave  e ingiustificata non avere
messo come priorità assoluta, dopo la Liberazione, la ri-
forma del codice penale del 1930, opera del grande giuri-
sta Alfredo Rocco, ma un testo simbolo del regime fascista
e coerente con la sua concezione dello stato etico. Si è
perduta la grande occasione di riscrivere il patto della
convivenza sociale e si è atteso fino a farsi travolgere da
un’ondata giustizialista che ha seppellito i principi fonda-
mentali di un diritto penale  liberale e garantista che pure
in Italia ha avuto padri e maestri, a partire dalla grande
tradizione dell’illuminismo penale.
2. Come ricordano alcuni dei contributi pubblicati nel vo-
lume (Calvi e Gonnella, principalmente), durante il primo
governo Prodi, nel 1998, il Senato approvò un disegno di
legge per l’abolizione dell’ergastolo, ma troppe prudenze
impedirono la conclusione di una proposta che aveva ot-
tenuto un ampio consenso politico. Salvatore Senese, nella
relazione che presentò all’Assemblea di Palazzo Madama a
nome della Commissione giustizia (e che, con il consenso
dell’Autore, ripubblichiamo integralmente), denunciò il
prevalere di elementi di «scissione e lacerazione» ricordan-
do i no all’abolizione motivati in nome della crisi della giu-
stizia. «Insistere per il mantenimento dell’ergastolo signifi-
ca quasi offrire una sorta di offa ingannevole all’opinione
pubblica: l’ergastolo, insomma, come strumento di ma-
scheramento, come strumento di pacificazione momenta-
nea, come placebo».
Quella scelta di civiltà fu sommersa nella palude delle13
titubanze, dei pregiudizi e della ipocrita distinzione – anco-
ra una volta – fra una riforma accolta e condivisa in via di
principio e poi negata per ragioni di opportunità politica.
Per altro, nel progetto di nuovo codice penale elaborato
in quegli anni dalla Commissione ministeriale presieduta
dal professor Carlo Federico Grosso l’abolizione dell’erga-
stolo era scritta a chiare lettere, essendovi sottolineato che
«l’ergastolo è una pena di morte distillata. È sbagliato dire
che è l’equivalente della pena di morte, perché si perde-
rebbe la distinzione definitiva  tra l’essere vivi e il non es-
serlo più. Però, al tempo stesso, sarebbe sbagliato non co-
gliere la vicinanza estrema tra la brutalità della pena di
morte e la brutalità dell’ergastolo».
Nella legislatura successiva si insediò una nuova com-
missione per la riforma del Codice penale presieduta dal
magistrato Carlo Nordio e nella scorsa legislatura la suc-
cessiva «Commissione Pisapia» confermò la scelta abolizio-
nista, con il sostegno degli stessi ergastolani, impegnatisi
in tutta Italia in una inedita forma di mobilitazione civile,
di cui danno conto – in questo libro – Boccia e Gonnella.
Lo scioglimento anticipato del Parlamento chiuse anche
questa prospettiva e ora sembra abbandonata finanche la
strada delle buone intenzioni e delle promesse congeniali
alla falsa coscienza.
3. È facile schierarsi contro la tortura o aderire alle cam-
pagne internazionali contro la pena di morte in astratto, o
quando vengono alla luce vicende emozionanti e tragiche
che riguardano gli Stati Uniti o la Cina, o altri paesi auto-
ritari e lontani. Diventa più  difficile confermare la scelta
abolizionista sull’ergastolo nell’immediatezza di episodi di
criminalità efferata. Taluno  si mostra in imbarazzo di
fronte a domande provocatorie su quale pena meritino
Totò Riina o gli autori di stragi mafiose. Giovanni Falcone
sosteneva che la mafia rappresentasse un fenomeno sociale
e come tutti i fatti della vita avesse un inizio e dovesse ave-14
re una fine. Dovremmo mettere in campo scelte politiche,
sociali ed economiche capaci di sconfiggere in un tempo
ragionevole le organizzazioni  criminali: dovremmo essere
convinti che trenta o trentatré anni (la pena prevista, a suo
tempo, dalla Commissione giustizia del Senato in sostitu-
zione dell’ergastolo) siano un tempo adeguato per liberare
il paese da una morsa intollerabile. L’opinione contraria
rappresenta un segno di rassegnazione e di sconfitta e in-
dica un volersi alleggerire la coscienza rispetto a incapacità
di governo dei fenomeni sociali e di contrasto di quelli
criminali.
Occorre una certa forza nell’avere fiducia nel futuro, in
un futuro diverso dal presente. Così come occorre avere
saldi principi per prendere sul serio l’articolo 27 della Co-
stituzione, quando respinge i trattamenti contrari al senso
di umanità e prevede che le pene debbano tendere alla ri-
educazione del condannato (dell’ergastolo nella Costi-
tuente, nel pensiero di Moro e nella giurisprudenza costi-
tuzionale scrivono Fortuna, Margara e Calvi). La sfida
davvero impegnativa non può non coinvolgere un proces-
so di risocializzazione, attraverso programmi seri di ripen-
samento delle esperienze passate anche e soprattutto per
gli autori di gravi delitti; non si può pensare che la norma
costituzionale si riferisse nel 1947 ai ladruncoli e oggi ai
tossicodipendenti o agli immigrati, cioè a quei soggetti che
in carcere non dovrebbero entrarci o, quanto meno, non
dovrebbero restarci se funzionasse un sistema di sanzioni
alternative.
Appare quasi straordinario,  considerato il clima domi-
nante, che sia stata approvata nel 2007 una legge costitu-
zionale per la cancellazione  assoluta dal nostro ordina-
mento della pena di morte, anche per la parte residua dei
casi previsti dalle leggi militari di guerra. Una modifica
proposta dal deputato Marco Boato e che ottenne una
maggioranza pressoché unanime del Parlamento. Un con-
senso simile è difficilmente  ipotizzabile per l’abolizione
dell’ergastolo, perché il ricatto della volontà della gente15
farebbe premio sulla razionalità. Si paga lo scotto di avere
fatto crescere e alimentato nell’opinione pubblica un sen-
timento di giustizia equivalente alla vendetta e alla ritor-
sione, individuale o di gruppo. Un esempio dello scempio
delle ragioni del diritto, della giustizia e dell’umanità si è
manifestato nella campagna di criminalizzazione dell’ulti-
mo provvedimento di indulto, dei suoi beneficiari e dei
suoi stessi sostenitori politici.
4. Un’obiezione di apparente buonsenso è quella di chi ri-
chiama alla norma del codice penale che prevede la possi-
bilità per i condannati all’ergastolo di accedere alla libera-
zione condizionale dopo aver  espiato 26 anni di carcere
(art. 176, III comma). Dieci anni fa, quando il Senato ap-
provava il disegno di legge Salvato per l’abrogazione del-
l’ergastolo, e le forche non andavano di moda quanto og-
gi, questo era l’argomento preferito dagli oppositori del-
l’iniziativa abolizionista: l’ergastolo, di fatto, non esiste
più, perché – normativamente – anche gli ergastolani pos-
sono accedere ai benefici penitenziari e, in modo partico-
lare, alla liberazione condizionale, dopo aver scontato 26
anni di pena.
Con questa stessa motivazione nel 1974, la Consulta sal-
vò l’ergastolo, giudicandolo costituzionalmente legittimo
tanto quanto non fosse più effettivamente tale, e cioè ri-
mediabile grazie alla liberazione condizionale. Un po’ la
preoccupazione che ha ora la Corte europea dei diritti
umani di fronte ai paesi del Consiglio d’Europa che con-
servano il carcere a vita senza sconti: l’ergastolo senza pos-
sibilità ordinarie di revisione (actual lifers sono chiamati i
malcapitati) violerebbe il divieto di pene inumane o de-
gradanti.
Argomento suggestivo, questo dell’ineffettività dell’er-
gastolo, ma usato spesso maldestramente da giuristi e opi-
nionisti. Scoprimmo infatti,  durante la discussione parla-
mentare della XIII legislatura, che non erano pochi gli er-16
gastolani che avevano superato il limite per l’accesso alla
liberazione condizionale senza poter godere di quel bene-
ficio. Addirittura uno, il povero Vito De Rosa, era sepolto
in un ospedale psichiatrico giudiziario da 47 anni (e ci sa-
rebbe rimasto ancora, prima di essere graziato per andare
a morire in un istituto di cura). E così, dieci anni dopo, gli
ergastolani con più di ventisei anni di pena già scontata si
sono addirittura moltiplicati per otto: il 17 settembre 2007
erano 94, di cui solo 29 in regime di semilibertà, gli altri
ordinariamente chiusi. Quarantanove di questi ergastolani
erano in carcere da più di trent’anni, la pena temporanea
massima prevista dal nostro ordinamento: non sono actual
lifers questi? O dobbiamo passare alla macabra contabilità
di chi l’ergastolo lo sconta per davvero: a proposito di ef-
fettività, quanti sono stati – nell’Italia repubblicana che
vieta le pene contrarie al senso di umanità – i condannati
alla pena a vita che sono morti in stato di detenzione? Non
sono loro i «veri» ergastolani?
Meglio fare attenzione, dunque, alle confusioni tra di-
ritto e realtà: normativamente l’ergastolo esiste, anche se
prevede la possibilità di un suo termine se, e solo se, viene
concessa all’interessato la liberazione condizionale; nella
realtà l’ergastolo esiste nella misura in cui vi siano erga-
stolani che scontano integralmente la loro pena o comun-
que ne subiscono il condizionamento dato dall’incertezza
nella prospettiva di una futura liberazione.
Intanto, in omaggio all’uso simbolico della giustizia pe-
nale, le condanne all’ergastolo si moltiplicano, moltipli-
cando i potenziali actual lifers. Al 31 dicembre del 2008, gli
ergastolani presenti nelle carceri italiane ammontavano a
1.408, su un totale di 26.587 detenuti definitivi, per una
percentuale del 5,29%. Se scavalchiamo l’indulto, che ha
stravolto l’andamento fisiologico della demografia peniten-
ziaria italiana, e torniamo indietro al 31 dicembre 2004 i
condannati all’ergastolo erano 1.161 su un totale di 35.033
detenuti condannati definitivamente, per una percentuale
del 3,31%; un po’ di più, sia in termini assoluti che per-17
centuali rispetto al 31 dicembre del 2001, quando erano
868, pari al 2,8% degli – allora – 31.024 detenuti condan-
nati definitivamente. Erano 663 il 10 gennaio del 1998, il
2,5% dei detenuti definitivi  e 556 il 10 luglio del 1996,
quando – in occasione dell’inizio dell’esame del d.d.l. Sal-
vato per l’abolizione dell’ergastolo – il governo presentò
un dossier completo sullo stato dell’applicazione della pena
perpetua in Italia. All’inizio del 1992, quando l’associa-
zione Antigone dedicò una giornata di studi al tema
dell’ergastolo, patrocinata dall’allora presidente della Ca-
mera, on. Nilde Iotti, i detenuti con condanna all’erga-
stolo (anche non definitiva) erano solo 408. Chi vuole può
esercitarsi a tracciare un grafico con questi dati: più o me-
no ne verrà una retta, indirizzata verso nord-est, a indicare
una crescita più o meno costante nel tempo.
Dunque, gli ergastolani in Italia sono quasi quadrupli-
cati negli ultimi sedici anni, mentre la popolazione dete-
nuta cresceva sì  sensibilmente, ma senza raddoppiare la
cifra di partenza (35.469 erano i detenuti al 31 dicembre
1991; 58.127 al 31 dicembre 2008). Del resto, se torniamo
a guardare all’incidenza percentuale degli ergastolani sul
totale dei condannati definitivamente, scopriamo che tra il
10 gennaio del 1998 e il 31 dicembre del 2008, essa è più
che raddoppiata, passando dal 2,5 al 5,29%. Una pena,
dunque, tutt’altro che desueta.
5. La pena infinita rappresenta una vera e propria nega-
zione dei principi costituzionali dell’umanità e della fina-
lità rieducativa della pena, che non si possono dare se essa
non prevede un percorso, una possibilità (non solo teorica)
di riscatto e di nuova libertà. L’ergastolo, al contrario, ne-
ga la speranza, elimina il futuro e trasforma il soggetto in
oggetto, privandolo della sostanza stessa della propria
umanità, di quel residuo di libertà e di responsabilità su di
sé e sul proprio futuro che  nessuna pena può legittima-
mente cancellare.18
Bellissime le parole con cui il filosofo Aldo Masullo entra
in punta di piedi nel dibattito parlamentare sull’abolizione
dell’ergastolo, ponendo però questioni veramente ineludi-
bili: «Di fronte al problema dell’ergastolo – abolirlo o non
abolirlo – la domanda che ci dobbiamo porre non è se esso
violi o non violi il sacrosanto diritto alla vita, ma se violi il
sacrosanto diritto dell’uomo all’esistenza, che è cosa di-
stinta. Vita è quella di tutti gli animali: anche l’animale
bruto vive. Ma l’esistenza è cosa squisitamente umana, per-
ché esistere, ex sistere, designa la condizione, che noi speri-
mentiamo momento per momento, dell’incessante nostro
perdere parte di noi stessi, del nostro essere per così dire
scacciati dall’identità nella quale stavamo al riparo fino a
questo momento e il nostro essere sbalzati verso un’altra
identità, fuor della quale presto saremo ancora sbalzati: in
questo momento io non sono  più quello che qualche mi-
nuto fa ascoltava i suoi colleghi e fra qualche momento già
non sarò più quello che adesso vi sta parlando».
Rivolgendosi direttamente ai colleghi giuristi, Masullo
proseguiva però sul suo registro: «Il tempo non è tanto la
misura della vita, quanto piuttosto l’emozione fondamen-
tale che ci caratterizza come uomini. Cos’altro sono io se
non la pena di ciò che ho perduto? Sulla letteratura del
tempo si è costruita tutta la cultura umana. Se il tempo
spaventa perché è perdita, ciò avviene per il fatto che non
siamo stati educati ad accorgerci che il tempo, cioè l’ac-
cidente del mio perdere ogni volta qualcosa di me, si ac-
compagna inevitabilmente, come ogni morte si accompa-
gna alla nascita, all’apertura di una nuova possibilità. Nel
momento in cui perdo qualcosa, nel momento in cui la fo-
glia che sto guardando cade, si apre la possibilità di una
nuova fioritura». E quindi: «Che cos’è l’ergastolo? Non è la
negazione di un segmento di vita o di tutta la vita residuale
dell’uomo. Esso è la negazione all’uomo di ciò che lo ca-
ratterizza più profondamente nel suo esistere, cioè il fatto
che mentre qualcosa muore qualche nuova possibilità na-
sce. L’ergastolano, nella sua condizione, di momento in19
momento, di ora in ora, vede morire parte di se stesso sen-
za che nasca alcuna possibilità nuova». E, «quando ciò av-
viene – conclude il senatore filosofo – l’apertura di possibi-
lità non viene tolta solamente all’individuo stesso, ma an-
che alla società degli uomini. Non possiamo infatti mai di-
menticare che, se siamo uomini, lo siamo diventati in mez-
zo ad altri uomini, perché siamo stati educati al linguaggio,
perché altri si sono rivolti a noi con la dolcezza della ma-
dre, o di chi ne fa le veci, e si è così instaurato quel rap-
porto «io-tu», senza di cui può darsi, sì, una società, ma una
società di formiche o di api. Una società di uomini è fon-
data sullo spirito comunitario, sul fatto che in ciascuno di
noi l’esistere è sentirsi coinvolti nel destino dell’altro».
Sulla relazione tra diritto, pena, ergastolo, libertà e re-
sponsabilità individuale il lettore troverà illuminanti, nelle
pagine del libro, quelle di Moro e le interpretazioni che
ne offrono, per esempio, Mino Martinazzoli e Maria Luisa
Boccia.
6. Da troppi anni in Italia si sono perseguite politiche fon-
date sull’innalzamento delle pene come risposta alle sem-
pre nuove emergenze. La politica debole si mostra essa
stessa reattiva, senza avere la capacità di offrire all’emo-
tività dell’opinione pubblica un baluardo, un  segno in gra-
do di incidere sulla coscienza sociale.
Abbiamo ritenuto di grande  interesse pubblicare in ap-
pendice al volume, con i commenti di Mino Martinazzoli e
di Adriano Sofri, le lezioni di Aldo Moro sulla funzione
della pena e in particolare sulla pena di morte e sull’er-
gastolo, lezioni che sono state all’origine di questa iniziati-
va (non solo) editoriale. Un particolare ringraziamento al-
l’editore Cacucci che ha autorizzato la pubblicazione del
testo tratto dal volume edito nel 2005, Lezioni di Istituzioni
di diritto e procedura penale, curato dal professor Francesco
Tritto, allievo e amico dello statista scomparso.
Nel famoso libro L’affaire Moro, Leonardo Sciascia – qua-20
si come premessa alla sua analisi – riprende il celebre arti-
colo di Pier Paolo Pasolini sulle lucciole, uscito sul Corriere
della Sera il 1° febbraio 1975, in cui si faceva riferimento al
linguaggio completamente nuovo adottato dagli uomini di
potere democristiani, e specialmente da Aldo Moro, il me-
no implicato di tutti nelle cose orribili accadute in Italia a
partire dal 1969: «un nuovo latino incomprensibile quanto
l’antico».
Aldo Moro, lo statista e il professore di diritto, si trovò
rinchiuso in una «prigione del popolo», sottoposto a un
processo senza regole, a subire una condanna senza diritto
di difesa e infine a essere  barbaramente trucidato. Una
sorte raccapricciante per chi aveva definito la pena di
morte «una vergogna inimmaginabile» in un regime di
democrazia sociale e politica. Ma, nelle sue lezioni univer-
sitarie, Moro si esprime con altrettanta chiarezza contro la
pena dell’ergastolo. La pena perpetua, «priva com’è di
qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi
sollecitazione al pentimento, appare crudele e disumana,
non meno di quanto lo sia la pena di morte».
Un avvertimento agli studenti, ma forse anche al legi-
slatore e ai politici: «ricordatevi che la pena non è la pas-
sionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta cali-
brata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la mi-
sura propria degli interventi  del potere sociale, che non
possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta,
ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità,
rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta
quale si esprime in una pena giusta». In questi tempi di in-
cattivimento generalizzato della società, paiono davvero
parole di una tempra morale da indicare come modello
alternativo alla demagogia e alla retorica dominante.
A questo messaggio non si addice la critica di Sciascia
sul dire col linguaggio del non dire, sul tentativo di farsi ca-
pire con gli strumenti adottati per non farsi capire. Se Scia-
scia avesse conosciuto le lezioni di Moro tenute nel 1976,
solo due anni prima del sequestro e della morte, avrebbe21
certamente individuato un altro elemento di contraddizio-
ne in una figura che certo lo ossessionava.
A noi ora piace ricordare Moro ministro di Grazia e
Giustizia, che – come rammenta anche Adriano Sofri – de-
dicava la sua maggiore attenzione alle carceri e ai carcera-
ti, a cui faceva lunghe visite.
7. Chiudiamo questa introduzione con le parole con cui un
grande storico del diritto che ci ha recentemente lasciato,
Italo Mereu, termina il suo volume La morte come pena (ult.
ed.: Roma, 2000): «la pena resta, ancora non educativa ma
terrorizzante. Ancora una volta non c’è stato il salto di
qualità. L’ergastolo ha di fatto sostituito la pena di morte
e, un’altra volta, ci troviamo con una pena che già nel-
l’Ottocento, da tutti, era stata giudicata ‘barbara’, ‘una
straziante agonia’, ‘un morire a fuoco lento’. Invece che
alla morte immediata condanniamo ancora alla morte al
rallentatore. La Repubblica ha preso ad opporre violenza
a violenza. E secondo la migliore tradizione italiana si è
trasformata in ‘lotta politica’ la lotta al crimine».
Non abbiamo la presunzione di credere che questo vo-
lume, un piccolo libro seppure con tante buone ragioni,
possa cambiare radicalmente  le cose, ma confidiamo che
possa suscitare un nuovo moto di ribellione verso la ridu-
zione dei principi costituzionali a espressioni derisorie e
beffarde.